Dopo la bella riuscita della Giornata del Medico di sabato 17 settembre al Teatro Olimpico e l’eco che ha avuto sulla stampa, molti iscritti hanno chiesto di poter leggere l’intervento del Presidente Michele Valente. Volentieri, qui di seguito, pubblichiamo i passaggi principali del discorso del nostro Presidente. Dopo i saluti iniziali ai giovani medici e ai colleghi che festeggiavano i 50 anni di laurea, il dr. Valente ha così proseguito:
Quella del Medico è la più bella delle professioni, perché le sue finalità sono di dare il meglio di sé per gli altri, di farli star bene, e di ciò dobbiamo andare fieri e orgogliosi, esercitandola con motivazioni sempre più forti e convinte. Ma non sarei un buon Presidente se non vi confessassi che quest’anno mi trovo in difficoltà nell’esprimere le brevi considerazioni che in occasione della Giornata del Medico, ogni anno, sottopongo all’attenzione dei vecchi e nuovi colleghi. I medici italiani stanno pagando un contributo non indifferente alla crisi che morde il Paese da troppi anni, con retribuzioni e sviluppi di carriera bloccati, con riduzioni massicce di personale medico, con aumenti impressionanti dei carichi di lavoro, con contratti atipici e compensi inadeguati, con premi assicurativi non più sostenibili e spesso non alla portata dei più giovani. Qualche mattina fa mentre stavo per recarmi nel nostro ospedale, sono stato bloccato all’ingresso da una telefonata e mentre ero al telefono guardavo i colleghi che andavano al lavoro. Nei loro volti, nel loro atteggiamento, ho ravvisato il disagio che stanno vivendo e che, loro malgrado, trasmettono. Turni massacranti. anche se qualcuno pensa che la monetizzazione li renda meno pesanti -. straordinari senza compenso, ma soprattutto senza possibilità di recupero. Stanchezza pericolosa, altro che risk management. Progressione di carriere interrotte perché la politica regionale sta abolendo molti primariati. Colleghe che vanno in maternità e non vengono sostituite. Queste nascite non sono una festa come dovrebbero essere, ma un dramma per i colleghi che dovranno sobbarcarsi anche il peso del loro lavoro, perché non sono previste sostituzioni. Il burnout che dovrebbe colpire solo le professioni svolte in contesti difficili, è oramai dilagante. Non vedo giovani, non ci sono, non c’è ricambio. Questo è l’Ospedale! Sono i medici della dipendenza, ma i problemi son analoghi anche negli altri settori. Tuttavia, uno dei principali motivi del disagio e della sofferenza di noi medici è il dover constatare quotidianamente la discrepanza tra i bisogni e le attese della gente e la nostra capacità di dare risposte adeguate alle loro necessità. La nostra professione è, infatti, un esercizio quotidiano di prossimità alle persone: nelle corsie degli ospedali, negli ambulatori, nelle case dei nostri malati e ovunque, noi, si venga chiamati, tocchiamo con mano la crescente preoccupazione per il difficile contesto economico, sociale e familiare in cui il malato si trova ad affrontare la malattia. Un recentissimo sondaggio di SWG Lab sull’Italia vista dagli italiani ha preso in considerazione la fiducia dei cittadini sulle classi dirigenti del nostro Paese. Voti completamente negativi sono stati ottenuti dai parlamentari (4,0), dai vertici delle banche (4,0), dai politici regionali, amministratori locali (4,4), dai dirigenti sindacali (4,6). Un po’ meglio si sono classificati gli imprenditori (voto 5,1). Nemmeno i parroci, bacchettati anche da Papa Francesco hanno raggiunto la sufficienza (voto 5,7). Solo i Medici (con voto 6,0) ottengono una risicata sufficienza, che poi di questi tempi non è per niente male. I primi a sorprendersi del risultato ottenuto dai medici sono stati gli stessi sondaggisti che si interrogati sul perché, nonostante il gran parlare di malasanità, di disservizi e gravi disagi per i pazienti che sono sotto gli occhi di tutti, i medici riescono ancora ad avere la fiducia della gente. La spiegazione viene data dagli stessi autori dell’indagine: perché i medici, che lavorano per la gran parte all’interno del sistema sanitario, vengono visti come le prime “vittime” di questa politica che non funziona. Non lo dicono solo i sondaggisti ma è quanto emerge dai rapporti del Censis sulla situazione sociale del Paese, che sottolineano come “i professionisti della Sanità continuano a dare il massimo tanto che, oggi più che mai, la Sanità sembra camminare sulle gambe degli operatori, di un personale che continua a garantire il proprio impegno professionale: l’unica cosa che “ancora tiene”nella sanità è il capitale umano. Tutto il resto non tiene più!”. Non sono parole mie! Lo dice il Censis!
Eppure la Sanità del Veneto ha sempre vantato eccellenze e performaces che altre regioni se le sognavano. Ma – come andiamo ripetendo da qualche anno – non si può pretendere di vivere sempre di rendita. E i segnali di declino non mancano.
La cartina al tornasole è costituita da due dati: la fuga di assistiti verso altre regioni e l’emigrazione di colleghi che cercano altrove quelle soddisfazioni personali e professionali che non riescono più a trovare nel sistema sanitario veneto. Non voglio rimpiangere tempi passati o antichi splendori. Ma nei nostri ospedali la meritocrazia è da anni una chimera, e la parola d’ordine è una sola: “riduzione”. Riduzione delle spese, degli organici, delle prestazioni, dei posti letto e dei premi assicurativi stipulati dalla Regione. Il tentativo di adattare il sistema sanitario ai limiti economici imposti dalla scarsità di risorse riservate alla Sanità è giustificabile, ma le politiche di compatibilità funzionano fino a quando non mettono in discussione i diritti inalienabili e la accessibilità ai servizi sanitari. Oltre certi limiti si crea un paradosso: per essere compatibile con l’economia, il sistema diventa incompatibile con l’etica, con la giustizia, con la stessa Costituzione, e di fatto anche con la produzione di ricchezza di un Paese, poiché la salute va considerata alla stregua di un bene economico che produce valore, oltre che benessere. La salute è una fortuna che si comincia ad apprezzare quando viene a mancare. Se chiedete a chi ha sperimentato la malattia quale sia la cosa più importante, la risposta sarà una sola : “ La salute”. Diceva Schopenhauer : “la salute non è tutto, ma senza la salute tutto è niente”. Assicurare a tutti la possibilità di curarsi è un dovere civile e per la politica è forse la prima delle cose da garantire; per il medico lavorare perché questo diritto possa essere universalmente applicato è un dovere morale ed etico. Sono tempi difficili, non solo in Italia, e anche Voi, giovani colleghi, ne siete coscienti, Ma il pericolo che noi tutti corriamo è che – in nome della “sostenibilità del sistema”, e nell’incapacità di tagliare gli sprechi dove ci sono (e sono tanti) – si sta perdendo di vista la vera missione della medicina.
Anche perché la sostenibilità in questa Regione e in questo Paese è un concetto un po’ strano, che definirei elastico: perché sono sostenibili le cose che si vogliono sostenere e non sono sostenibili le cose che non si vogliono sostenere. Sono sostenibili l’edilizia ospedaliera, gli affitti per la finanza di progetto (centinaia di milioni/anno pagati dalle ULS venete) mentre non è sostenibile il capitale umano. Ben venga la riforma della sanità veneta con la ventilata riduzione delle Ulss. Ma sorge legittima una domanda: è preferibile investire in capitale edilizio o non sarebbe meglio investire in capitale umano? Insomma, un buon ospedale lo fanno i muri o gli organici adeguati di buoni medici? E l’assistenza sul territorio si migliora imponendo tagli di prescrizioni (farmaci e richieste di visite specialistiche) ai medici di famiglia o lasciandoli lavorare secondo scienza e coscienza, per il bene della gente? Il reale valore di un ospedale non è la cifra che è costato e il valore dell’area sulla quale insiste ma è dato dalle cure che riesce a erogare, dai servizi che offre al cittadino, dalle eccellenze del personale, dalla validità della ricerca. A ben vedere la differente visione della Sanità, dei medici da una parte e dei politici tecnocrati dall’altra, è tutta qui. Chi determina e dirige la politica sanitaria non vuole arrendersi all’evidenza e accettare il concetto che i buoni ospedali li fanno i medici e che è il fattore umano a segnare la differenza tra una buona e una cattiva sanità. Così come una buona scuola non la fanno i banchi o le aule ma la qualità e la quantità del corpo docente. Una volta il medico era giudicato bravo se curava bene gli ammalati e li guariva, era capace di fare diagnosi, li visitava con attenzione, li seguiva nel decorso della malattia, usava umanità, disponibilità, competenza. Oggi non è più così: avete mai sentito dire di un medico che ha avuto progressione di carriera o altri riconoscimenti perché curava bene gli ammalati, li seguiva con dedizione? Gli oncologi di un ospedale veneto sono stati richiamati perché le prime visite oncologiche duravano 45 minuti, qualche volta un’ora a seconda del caso, invece di mezz’ora come stabilito: a un malato oncologico, che magari non sa ancora di avere il cancro, si contano i minuti. Alla faccia della umanizzazione delle cure. Povero Ippocrate. La medicina ha vissuto nella sua storia millenaria numerosi alti e bassi.. per la verità molti più bassi, ma mai si è visto il medico disoccupato o precario… con tanta gente bisognosa di cure come in questo periodo, ed è disastroso dover constatare che negli ospedali i medici sotto i 35 anni di età sono una rarità. Non lasciamoci ingannare dai numerosi giovani con il camice bianco che incontriamo nei corridoi o nei reparti: non sono medici strutturati, sono tirocinanti o specializzandi che vengono impiegati come vera forza lavoro senza averne i diritti e che devono pure pagarsi il pasto in mensa come qualsiasi altro visitatore dell’Ospedale. Il 22% dei nostri giovani medici neolaureati migra stabilmente fuori dai nostri confini. Non so se a farlo sono i più brillanti, o i più intraprendenti, quello che so è che tra i motivi che li portano a questa non facile scelta c’è la speranza di trovare fuori del nostro Paese migliori possibilità economiche e di ricerca, possibilità di carriera garantite dal merito e dalle capacità, piuttosto che dalle amicizie o dal colore delle appartenenze politiche.. Il maggior numero di medici stranieri che lavorano negli Stati Uniti proviene dall’Italia. E siccome negli Stati Uniti non assumono i più asini, questo dato significa semplicemente che il nostro Paese ha sprecato soldi per laureare migliaia di giovani, per poi vederli emigrare. Giovani brillanti e preparati i cui nomi leggiamo, con rammaricato orgoglio, tra le firme dei migliori lavori scientifici americani o che annoveriamo tra i clinici più illustri operanti all’estero. Ma allora non dobbiamo temere solo la crisi economica o le scarse risorse finanziarie, ciò che deve fare veramente paura, l’emergenza vera che va affrontata (seriamente e con misure credibili) è rappresentata dall’impoverimento culturale del Paese, che è l’anticamera della povertà materiale e della perdita di speranze.
Il nostro è un Paese che ha disperato BISOGNO di SPERANZE. Per questo, nonostante questi scenari problematici, vogliamo anteporre al pessimismo della ragione l’ottimismo della volontà e lavorare perché le speranze possano concretizzarsi. In questo siamo pronti a fare la nostra parte. Chi ha il potere e la responsabilità delle scelte, se ne è capace, faccia il resto. I medici andranno avanti, come hanno sempre fatto, con la forza dei loro valori e dei loro ideali che mettono i pazienti, i malati al primo posto. Continueremo a studiare e a lavorare per curare e guarire la gente, con l’impegno e la dedizione che ci contraddistinguono e che hanno contraddistinto questi medici senior che oggi festeggiamo. Il Presidente ha concluso chiedendo un applauso particolare alle famiglie dei giovani medici perché “se siamo qui oggi a fare festa è anche grazie ai sacrifici che loro hanno sostenuto”.